Juan D’Arienzo racconta la sua storia (interviste del 1969 e 1974)

Il celeberrimo violinista, pianista e direttore d’orchestra Juan D’Arienzo, amatissimo da sempre dal popolo dei ballerini di tango argentino, specie i più giovani, si racconta in interviste rilasciate nel 1969 alla rivista “Aquì està” e nel 1974 (due anni prima della sua morte) alla rivista “Siete Dìas”. Il 13 Gennaio 1993 la rivista “La Maga” pubblica il testo completo di queste interviste (ripubblicato poi da todotango).

Leggendo le sue parole sembra quasi di averlo davanti, Juancito, pregno di orgoglio e malinconia, con la sua semplicità, il suo spirito allegro, il suo amore per il tango tradizionale, la nostalgia dei bei tempi passati, delle notti brave in giro per la calle Corrientes, dei cabaret, dei “milioni” di amici… ma anche con l’ottimismo e la speranza di chi ha fatto di tutto per non far morire il tango.

Tradotto in italiano per voi, ecco il suo racconto.

 

“Sono nato a Cevallos e Victoria, perché per me la via Hipólito Yrigoyen continua ad essere Victoria.
Iniziai suonando il violino e poi il pianoforte, però prima di tutto mi dedicai al Jazz. Arrivai a fare grandi stagioni nel vecchio Cinema Select Lavalle negli anni ’23 e ’24. C’era Cosentino al sassofono. Continuai poi a suonare jazz con Verona nel Real Cine e con noi c’era Lucio Demare al piano. Aveva vent’anni quel ragazzo.

Arrivò poi l’epoca in cui terminarono i film muti ma allora avevo già una buona carriera. Tuttavia ci volle tempo prima di suonare nella banda Cauvilla-Prim. Lì mi accompagnò Eugenio Nobile, gran violinista.
Suonavo anche il tango, da sempre. Da quando avevo 18 anni. Nel 1926 suonavo nel Paramount con Luisito Visca e Angel D’Agostino. Lì iniziai ad elaborare lo stile che poi mi distinse, quello di dar risalto al pianoforte e la quarta corda del fondo che suonava Alfredo Mazzeo.

Il soprannome di “Rey del Compás” (Re del tempo, del ritmo) me lo misero nel Cabaret Florida, l’antico Dancing Florida. Lì suonava Osvaldo Fresedo, mentre io mi esibivo nel Chantecler, che era degli stessi proprietari. Nel 1928 0 1930 conobbi il famoso Principe Cubano, che era il presentatore degli spettacoli. C’era anche Julio Jorge Nelson. Questo accadde quando andai a sostituire Fresedo al Florida. Il pianista era Juan Carlos Howard. Fu in quei giorni che il Principe Cubano mi presentò come El Rey del Compás, per lo stile che avevo.

La mia è sempre stata un’orchestra robusta, con un ritmo molto marcato, nervoso, vibrante. Questo perché il tango per me possiede 3 cose: tempo (o ritmo), effetto e intensità. Un’orchestra deve avere, soprattutto, vita. Per questo la mia perdurò per più di  50 anni. E quando il Principe Cubano mi mise questo titolo, pensai che andava bene, che aveva ragione.

Gardel lavorava insieme a me nel Paramount, ma non cantò con la mia orchestra. Faceva il duo con Razzano tra un atto e l’altro. Era l’epoca in cui io suonavo Jazz con Verona. Dopo tornammo a lavorare insieme nel Real Cine, sempre negli intermezzi. Però, sebbene non cantò mai sotto la mia direzione, Gardel era un mio fan e veniva sempre a vedermi nei cabaret dove mi esibivo. Ho già 42 anni di cabaret! Prendete nota se volete: Abdullah, Palais de Glace, Florida, Bambú, Marabú, Empire, Chantecler, Armenonville. Tutto questo in 42 anni. Se non la conosco io la gente della notte!

La nostra è un’orchestra unita: i ragazzi sono affiatati. Proviamo 3 o 4 volte e già ognuno sa quello che deve fare. Io gli faccio qualche correzione e la cosa è fatta. A volte manca solo aggiungergli la mia impronta, cosa a cui tengo molto perché raggiungere il successo è difficile, ma ancora di più è mantenerlo. E io lo faccio da sessant’anni.

La vita di oggi è un’altra cosa. E’ cambiato tutto. Non c’è confronto. La vita notturna, secondo me, è scomparsa. Noi iniziavamo appena a vivere alle 4 della mattina. Ora invece all’una, dopo l’uscita dai cinema, già non c’è più un’anima per strada. Una noia mortale, questa è la verità. Quando Corrientes era stretta, uscivamo a passeggiare alle 5 della mattina e tutto il mondo stava per strada. Teatri, caffè, ristoranti, cabaret, tutto era aperto e pieno di gente. Uno camminava e riceveva saluti ad ogni passo. Mi manca tutto questo.

Nonostante tutto quello che ho vissuto, sono un tipo molto naturale, come tutto il mondo. Mi piace gustare un caffè e osservare l’arrivo della notte fonda. Niente di più. Al massimo gioco una partita a Truco per passare il momento. Questo perché a Buenos Aires non c’è la Roulette. Se ci fosse, starei lì tutto il giorno. Però quando salgo sul palco divento un’altra cosa. Mi trasformo. E’ il mio mestiere e ho bisogno di sentire quello che dirigo, e di trasmettere a ogni musicista quello che sento.

Nei cabaret si suonava tutta la notte, la gente ballava, si divertiva, rimaneva fino al sorgere del sole, e ai musicisti gli venivano i crampi per il tanto suonare. Non c’era orario per andar via. Oggi questo non esiste e mi fa male al cuore. Ora ci sono sale da ballo, ma non è lo stesso. Al massimo fanno un piccolo show.

I giovani mi amano. I miei tangos piacciono perché sono movimentati, ritmici, nervosi. La gioventù cerca questo: l’allegria, il movimento. Se tu gli vai a suonare un tango melodico e fuori dal ritmo, non gli piacerà. Questo succede. Oggi ci sono bravi musicisti e grandi orchestre che credono che quello che stanno facendo è tango. Credono di poter imporre un nuovo stile e magari gli andrà bene, ma io continuo a pensare che se non c’è ritmo, non c’è tango. Come professionisti li rispetto tutti. Ma quello che fanno non è tango. E se mi sto sbagliando significa che sono più di 50 anni che mi sbaglio.
Io credo di no, che la mia è la verità. Per questo, nonostante non sia mai andato più in là dell’Uruguay, la mia musica si conosce in Europa, in Giappone. Ho avuto migliaia di offerte dall’estero ma per andarci avrei dovuto prendere un aereo ed io su un aereo non ci salgo. E’ un trauma che ho subito e per me è giustificato.

Carlos Gardel e Leguisamo venivano tutte le notti al Chantecler. Si mettevano in un palco di sopra e aspettavano che terminassi. Poi salivo a bere una coppa di champagne con loro e restavamo ore a chiacchierare. Una notte Gardel mi disse: “Guarda Juancito, credo che morirò in un aereo”. Gli risposi: “ma piantala, non dire stupidaggini!” ma non lo erano. Lui se lo sentiva, per questo non ho mai voluto salire su un aereo.
Per esempio, sarei andato in Giappone se non avessi avuto questo trauma, mi aveva invitato l’imperatore Hirohito in persona, non come gli altri che venivano portati dagli impresari. Hirohito mi mandò un assegno in bianco per farmi scrivere qualsiasi cifra pur di avermi a Tokyo. Gli risposi che non era una questione di soldi ma di non voler prendere l’aereo. Mi disse che potevo andare in nave, ma ci sarebbero voluti 40 giorni. Che faccio io 40 giorni guardando il cielo e l’acqua? L’imperatore insistette: “le mando un sottomarino ed arriva in 25”. Però io neanche se fossi pazzo, perché lì questi giapponesi si mettono a fare la guerra e poi rimango sott’acqua. Per questo non andai. Credo che mi sarebbe piaciuto. Questo accadde nel 1957 o ’58.
Per questo non ho mai voluto uscire dal paese. Non parlo dell’Uruguay perché anche se sono nato qui, sono mezzo uruguaiano. Sono stato molti anni lì e voglio molto bene agli orientali. Durante quei 38 anni mi sono esibito a Carrasco e in tutto l’Uruguay.

Ho milioni di amici. Uno di questi è il Generale Peron (presidente, allora, dell’Argentina). Ci conosciamo dai tempi in cui andavamo al Luna Park a vedere gli incontri di Prada e Gatica. Poi ci riunivamo con il raffinato Ismael Pace e con Lectoure (i proprietari dello stadio Luna Park), ci mangiavamo un asado, bevevamo qualche whiskey e giocavamo a Truco. Io stavo in coppia con Borlenghi (ministro dell’interno di Peron). Sono più di vent’anni che sono amico del generale.

Io sono un grande ottimista. Un tipo allegro, burlone. Adoro fare scherzi e pretendo solo di poter continuare con la mia orchestra, anche se so di non essere un ragazzino, che devo stare attento e che non posso spendere tante energie come prima. Tuttavia, quando salgo sul palco, faccio sempre uno show. E non lo faccio per divertire. Lo faccio perché il tango io lo sento così. E’ la mia forma di essere.
Modestia a parte, io l’ho fatto rinascere. Il tango antico, quello della Guardia Vieja, aveva ritmo, nervo, forza e carattere. Il nostro dovere è fare in modo che non perda niente di questo. Per averlo dimenticato il tango argentino è entrato in crisi da alcuni anni. Modestia a parte, io ho fatto di tutto per farlo rinascere. Secondo me, una parte di colpa nella decadenza del tango è dei cantanti. C’è stato un periodo in cui l’orchestra tipica non era altro che un semplice pretesto per far risplendere il cantante. I musicisti, incluso il direttore, non erano altro che accompagnatori di un divo più o meno popolare. Per me questo non deve succedere.

Il tango è anche musica, come già è stato detto. Io aggiungerei che è essenzialmente musica. Di conseguenza, non si può relegare l’orchestra ad un ruolo secondario per collocare in primo piano il cantante. La voce umana non è e non deve essere altro che uno strumento in più dentro l’orchestra. Sacrificare tutto per il cantante, per il divo, è un errore. Io ho reagito contro questo errore che ha causato la crisi del tango e ho messo l’orchestra in primo piano e il cantante al suo posto. Inoltre, ho cercato di restituire al tango il suo accento mascolino che si era andato perdendo attraverso i successivi simulacri. Gli ho impresso così, nelle mie interpretazioni, il ritmo, il nervo, la forza e il carattere che gli diedero la cittadinanza nel mondo musicale e che si stavano perdendo per le ragioni che ho detto. Per fortuna, questa crisi è stata transitoria ed oggi il tango è risorto con la vitalità dei suoi tempi migliori. Il mio più grande orgoglio è aver contribuito a questo rinascimento della nostra musica popolare.

Juan D’Arienzo dirige la sua orchestra nel tango “Loca”

Testo originale: https://www.todotango.com/historias/cronica/4/DArienzo-El-tango-tiene-tres-cosas/
Traduzione a cura di: Manuela D’Orazio

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